Uno dei più interessanti e innovativi approcci allo studio della politica internazionale degli ultimi anni è di scuola americana; esso unisce la disciplina dell’analisi della politica estera con l’apporto delle neuroscienze, le quali, studiando il cervello umano, ne studiano funzionamento e limiti portando l’individuo, davanti a molteplici scelte, ad optare per un determinato corso d’azione rispetto ad un altro.
Questa scuola solleva interessanti questioni: è possibile studiare gli scenari internazionali, senza partire dalle risposte che la geopolitica correttamente fornisce, attraverso una “lente” differente, ovvero indagando le motivazioni, le percezioni e i possibili errori cognitivi tipici del decision making process americano?
E’ corretto analizzarne esclusivamente le variabili del modello sistemico indagato, il grado di eterogeneità/omogeneità degli attori nelle loro relazioni interstatali, la distribuzione di forza, gli interessi geopolitici e geoeconomici in gioco, oppure focalizzarsi sul comportamento del decisore?
La scoperta fondamentale delle neuroscienze è quella di mostrare come la politica estera sia nient’altro che un insieme di decisioni individuali (o di gruppo) derivabili da input personali e particolari del nostro cervello; sebbene essa fornisca un nuovo punto di vista da cui partire, le ragioni della geopolitica rimangono quelle che meglio interpretano la complessa natura dell’ambiente politico internazionale.
Questa disciplina americana nominata neuropolitica risulta non ancora pronta in tal senso poiché ancora oggetto di studio, mancante di quella valenza scientifica necessaria per assurgere a possibile metodo d’indagine.
Che cos’è la Neuropolitica?
Uno dei più interessanti e innovativi approcci degli ultimi anni allo studio della politica internazionale è, come accennato, di “scuola americana”; essa unisce lo studio dell’analisi della politica estera con l’apporto delle neuroscienze; in particolare questa disciplina ibrida chiamata Neuro-Politics, lungi invero da essere considerata scienza, è simile ad un caleidoscopio con il quale vedere le sfaccettature dell’ambiente internazionale da una diversa prospettiva.
Essa infatti, partendo dallo studio sul processo decisionale quale branca della più generale disciplina analizzante la politica estera, si focalizza primariamente sul decisore politico e sulle sue decisioni, alla luce delle scoperte delle discipline che studiano il funzionamento del cervello umano ricomprese nella grande famiglia delle Neuroscienze.
Quali novità forniscono allo studio della politica internazionale? Perché possono o meno rappresentare un nuova modalità di analisi della suddetta ?
Esse hanno messo in luce sostanzialmente due punti focali: in primis, l’individuo, sia esso decisore politico o uomo qualsiasi, nella vita di tutti i giorni si trova di fronte a una vasta gamma di scelte da fare, che molto spesso addirittura ignora, la cui risposta del cervello umano ad uno stimolo esterno (inteso come sfida), è decisiva per capire perché si decida in un terminato modo e perché si opti per quella determinata scelta rispetto ad un’altra.
In secondo luogo ,ogni decisore è diverso dall’altro poiché plasma le sue scelte in base a percezioni, emozioni, ricordi ; tutte queste variabili decisionali vanno lette alla luce della limitatezza delle capacità cognitive che è il vero e proprio paradigma da cui partire secondo questa interpretazione.
Nello specifico, la scuola americana alla luce di quanto detto, traduce la vita politica internazionale come il susseguirsi di avvenimenti, con riferimento a qualsiasi sistema internazionale di ogni epoca storica , risultanti quali decisioni di leadership.
Lo stallo in seno all’Onu sulla questione siriana a causa del veto russo, i nuovi tagli del governo americano sul budget della difesa che inevitabilmente riconfigureranno e rimoduleranno la propria presenza negli scacchieri regionali-mondiali… essi sono solo alcuni esempi di decisioni le quali, per essere “compresi” ,possono essere analizzati, disvelando il solo complesso meccanismo sottostante e ruotante intorno allo studio neuro-scientifico della politica? Tra poco risponderò a questo quesito.
Questa disciplina di neuropolitics, nata Stati Uniti, sta divenendo oggetto di indagine e di interesse da parte degli “analisti” italiani e non solo.
Essa studia dunque la decisione al contempo come processo e prodotto finale; con il primo termine si intende l’analisi delle variabili influenzanti (di cui sopra accennato) la decisione e interagenti tra loro, con il secondo, più semplicemente, ci si riferisce alla decisione quale prodotto (politico) finale, il quale può essere più meno rilevante ai fini di creare nuovi scenari internazionali o influenzarne altri.
La figura del decision-maker è quella di uomo, dotato di una propria personalità, propri interessi e limitato cognitivamente poiché non dotato di una razionalità atta a permettergli di accedere in toto ad un bagaglio informativo tale da essere soppesato in ogni sua variabile decisionale in gioco: gli errori di percezione o mis-perceptions possono rendere miope la visione del quadro politico di riferimento.
Una domanda che si ricollega a quella precedente sorge spontanea: per comprenderne i complessi scenari politici, è dunque sufficiente analizzare esclusivamente le variabili del modello sistemico indagato, il grado di eterogeneità/omogeneità degli attori nelle loro relazioni interstatali, la distribuzione di forza, gli interessi geo-politici e geo-economici in gioco, oppure occorre studiare primariamente il comportamento del decisore?
Perchè tale disciplina non convince ancora?
Prendendo ad esempio il veto russo sulla questione siriana non basterebbe, allora, sottolinearne le sole ragioni strategico-politiche che sottendono tale decisione per comprendere quanto sta accedendo?
In particolare, tutelare un alleato storico, interlocutore privilegiato nella regione per Mosca, proteggere la base di Tartous, scalo importante (e unico) per la flotta russa nel Mediterraneo ( dove Mosca intende restare ad ogni costo), riaffermare il suo peso all’interno del Consiglio di Sicurezza?
Se dovessimo dare una risposta attraverso la lente della neuropolitica , diremmo che attraverso un nuovo livello d’analisi occorre studiare primariamente la personalità del decisore, la tipologia di leadership esercitata, la capacità d’influenza o meno da parte del group-think quale cerchia di consiglieri politici ,la corretta sintesi delle informazioni in possesso, e il ruolo dei sentimenti quali variabili inficianti il calcolo di razionalità.
Queste sono infatti alcune delle variabili neuro-politiche tipiche di una indagine di scuola americana di nuova generazione; nello specifico Lewin, Lippitt e White ci direbbero che partendo dalla analisi delle diverse tipologie di leadership è possibile comprendere come i decisori formuleranno la propria decisione.
In particolare classificherebbero lo stile russo secondo quello autoritario, in cui il ruolo del leader è preminente e quello del group-think è minimo; egli non delega ma esercita attivamente il proprio potere esponendosi ad una eccessiva quantità di informazioni che potrebbero indurlo all’errore.
In realtà tale risposta non convince perché se vuole essere un punto di partenza dal quale costruire la nostra analisi, essa rischia di sviarci; l’appoggio della Russia alla Siria risulta essere invero prettamente geopolitico: come sopra citato Mosca ritiene Damasco un alleato importante nella regione medio orientale e partner commerciale di non poco conto (si pensi alla vendita delle armi per un ammontare di alcuni miliardi di dollari).
Il fatto stesso di permetterle un accesso ad un mar caldo quale il Mediterraneo ne fa un key player strategico da supportare, sebbene l’Occidente voglia ad ogni costo abbattere il regime di Assad utilizzando motivazioni umanitarie.
La neuropolitica è in continua evoluzione e tutta ancora da indagare; essa non è ancora in grado, come nel caso specifico, di sostituirsi alle ragioni geopolitiche che stanno dietro ad una scelta.
Indubbiamente l’analisi di queste variabili aiutano a comprendere la personalità del decisore e sono molto interessanti per stilarne una sorta di profilo, ma non possono (ancora) rappresentare un punto di vista genuino sulla comprensione dei complessi scenari di politica estera.
Un altro scenario internazionale, che gli analisti americani spiegano come errore di mis-perception decisionale, è la decisione di Bush figlio di muovere “guerra” all’Iraq nel 2003 ove il sentimento di vendetta ha inficiato il calcolo razionale-decisionale.
Questa “politica di vendetta” è stata adottata dallo stesso (come molti autori l’ hanno ribattezzata) attraverso la costruzione di prove sulla presenza di armi di distruzione di massa ( rivelatesi false) al fine di vendicare l’attacco al suolo americano da parte dell’ “Asse del Male”.
La politica unilaterale di Bush, sebbene condita di discorsi retorici di vendetta e contrapposizione tra un Impero del Bene e l’incarnazione del Male, in realtà non può nascondere le ragioni geopolitiche dietro alla scelta di attaccare l’ Iraq; l’importanza del petrolio iraqueno e il ruolo di egemonia che gli Usa volevano preservare nella regione sono, infatti, risposte geopolitiche e non neuropolitiche.
Dove può funzionare?
Se la geopolitica fornisce le spiegazioni che cerchiamo per comprendere le complesse ragioni che si celano dietro ai complessi scenari di politica, alcuni “modelli psicologici” che la neuropolitica ha elaborato, possono fornire un apporto utile se non a spiegare questi scenari in toto, almeno a fornire alcuni validi spunti di riflessione che vanno contro-verificati dalla geopolitica stessa; in pratica essi possono divenire una risorsa in più per integrarne l’analisi.
Secondo questi modelli psicologici, il decisore, in linea generale, tende a semplificare il complesso bagaglio informativo di cui dispone attraverso analogie e modelli precostituiti influenzati da personali percezioni e credenze spesso errate (Bush senior nel 1991 chiamò Saddam Hussein “un altro Hitler” con poca attenzione alle differenze tra le due personalità in questione), escludendo nel suo processo di scelta informazioni dissonanti ed ambigue che non riesce a ricondurre all’impianto decisionale costituito (L’Iran viene dipinto dagli occidentali come il “regno” di un dittatore e guerrafondaio desideroso di dotarsi di un apparato nucleare tale da distruggere Israele, perdendo di vista il ruolo regionale “positivo” che ricopre nella regione caucasica – si pensi all’isolazionismo armeno tra Turchia e Azerbaijan bilanciato da questo Stato- o all’importante ruolo per l’energia mondiale).
In secondo luogo, egli non è neutrale al rischio di perdita che lo affligge in maniera superiore rispetto a un guadagno di pari entità ( il presidente Sadat non accettò mai la perdita del Sinai a favore d’Israele nel 1967 portando alla formulazione di politiche incaute e frettolose sfociate nella guerra del Kippur), e infine è dotato di basse capacità predittivo-probabilistica che lo portano alla costruzione di scorciatoie mentali chiamate “euristiche” ( storicamente emblematica, in tal senso, la politica di appeasement nei confronti della Germania hitleriana: attraverso i continui riconoscimenti delle rivendicazioni tedesche si voleva evitare un nuovo conflitto mondiale) che spesso si rivelano essere null’altro che strategie di over-semplification approssimative.
Queste riflessioni apparentemente corrette, vanno dunque, secondo la mia opinione, ri-verificate alla luce di quanto sopra esposto.
Conclusione: geopolitica o neuropolitica?
Sebbene questo nuovo approccio allo studio della politica internazionale fornisca una chiave di interpretazione affascinante, essa fa parte di un approccio scolastico americano ancora tutto da approfondire a da verificare.
La ragioni geopolitiche sono quelle più aderenti alla realtà dei fatti poiché mostrano il vero comportamento dell’attore statale volto a preservare e/o a promuovere i propri interessi.
La neuropolitica sarebbe dunque null’altro che una nuova definizione di politica; risultato di tutto ciò che è stato (correttamente) definito come politico, rivalutato e riletto alla luce delle scoperte neuroscientifiche; dunque una politica che nella sua analisi parta dal livello individualistico –umano, che ne studi il leader in quanto connotato da credenze, percezioni, personalità ed emozioni proprie, risalendo infine verso il livello sistemico descrittivo di riferimento.
Il processo decisionale neuroscientifico non è in grado di spiegare la realtà internazionale; sembra piuttosto in grado di fornire riflessioni interessanti che vanno via via contro-analizzate e soppesate riconducendole nell’alveo (se possibile) della geopolitica stessa.
Non è possibile ora dire quando e quanto la neuropolitica americana potrà divenire strumento utile di indagine, poiché la disciplina è vasta e complessa e ancora tutta da scoprire. Secondariamente, se essa sembra funzionare meglio nell’analizzare le decisioni quotidiane di un individuo ( come dimostrato da alcuni esperimenti condotti su campioni di volontari) , è ancora tutto da dimostrare se possa o meno divenire parte integrante delle discipline analizzanti il panorama internazionale.
*Vismara Luca Francesco è dottore magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università Statale di Milano