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Channel: Sviluppo sostenibile – Pagina 131 – eurasia-rivista.org
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Inghilterra: un impero destinato al tramonto?

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“Situazione imbarazzante” potrebbe essere la frase in grado di riassumere il pensiero della Regina Elisabetta e del Primo Ministro Britannico Cameron. Ad oggi sembrano ben lontani i tempi in cui l’Inghilterra si ergeva al centro delle strategie geopolitiche del Vecchio Continente: da qui partivano le direttive d’oltre oceano (Stati Uniti) per il vecchio continente, sulle politiche internazionali da spalleggiare. L’Inghilterra oggi sembra un po’ più sola, intenzionata a trarre in salvo la propria economia dal vortice instabile della Comunità Europea, ma allo stesso tempo priva dell’appoggio del transatlantico Statunitense, arenatosi in un improvvisa multipolarità mondiale. Oggi l’Inghilterra appare meno forte ed alla ribalta della cronaca solo per gossip reali che tutt’al più la dipingono simpatica e lungi dall’essere temibile come in passato. Forse è proprio questa parvenza di vulnerabilità a spingere alcuni membri del Commonwealth a palesare una voglia di cambiamento sino ad oggi impensabile.

Il Commonwealth nasce nel periodo coloniale (British Commonwealth of Nations) con lo scopo di identificare l’estensione del controllo geopolitico del Regno di Gran Bretagna: domini, colonie, protettorati e territori in amministrazione fiduciaria sparsi in tutto il mondo, dalla vicina Irlanda, all’Australia passando per le Americhe. Tale comunità vede però il suo atto costitutivo nel 1926 con la Dichiarazione di Balfour, con la quale si pongono alla base dell’intero Commonwealth due principi cardine: la fedeltà alla Corona Britannica e il rispetto delle autonomie locali. In poche parole c’è un riconoscimento dell’autonomia dei singoli Stati che agiscono nel rispetto e sotto il benestare della Corona Inglese. Attualmente la comunità del Commonwealth è costituita da Regno Unito – comprendente Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda del Nord e 15 isole tra cui le Malvinas (o Falkland) -Canada, Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda, India, Pakistan (sospeso nel 2007), Sri Lanka, Ghana, Malaysia, Nigeria, Cipro, Sierra Leone, Giamaica, Trinidad e Tobago, Uganda, Kenya,Tanzania, Malawi, Malta, Zambia, Gambia, Singapore, Guyana, Botswana, Lesotho, Barbados, Mauritius, Swaziland, Samoa, Tonga, Figi (sospese nel 2006), Bangladesh, Bahamas, Grenada, Papua Nuova Guinea, Seychelles, Isole Salomone, Tuvalu, Dominica, Santa Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Kiribati, Vanuatu, Antigua e Barbuda Belize Maldive, Saint Kitts e Nevis, Brunei, Namibia, Mozambico, Camerun, Nauru e Ruanda.

La Scozia forse rappresenta il più inaspettato problema della legislazione Cameron. Il primo ministro scozzese, Alex Salmond, dopo aver attenuto con il suo partito, lo Scottish National Party, la maggioranza assoluta dei seggi nel parlamento scozzese, ha annunciato che darà il via ai progetti previsti per la seconda parte del suo mandato. In cima alla lista delle “cose da fare” di Salmond appare a chiare lettere la volontà di fare della Scozia uno Stato indipendente dalla Corona Inglese. Ciò che richiama pellicole cinematografiche epiche, oggi sembra molto più che una frase ad effetto e lo dimostra la stessa maggioranza ottenuta nell’organo legislativo. L’idea di Salmond è di indire un referendum nel 2014 per chiedere alla popolazione scozzese se vuole o meno l’indipendenza. Da parte sua Cameron ha avuto una frettolosa reazione che potrebbe dare più forza al movimento indipendentista di Salmond. Il primo ministro inglese ha provato a legittimare l’effetto vincolante del referendum se solo fatto nei prossimi 18 mesi. La risposta scozzese non si è fatta attendere ed è stato fatto un pronto richiamo al programma politico di inizio mandato che per l’appunto vedeva il progetto di indipendenza nella sua seconda metà. In poche parole pieno rispetto dell’iter legislativo programmato e pronto dietrofront consequenziale di Cameron che ha dichiarato “…gli scozzesi sono liberi, voglio solo che il voto sia leale, giusto e decisivo”. Allo stato attuale sembra che il referendum si farà ed il suo esito risulta alquanto incerto – attualmente i sondaggi vedono il 57% degli scozzesi contrari all’indipendenza – ma Salmond ha due anni di tempo per aumentare i consensi indipendentisti e non è detto che non ci riesca. Nel mentre è già attiva una guerra psicologica fatta di numeri e dati proposti dagli analisti delle due parti in causa: gli scozzesi puntano ad enfatizzare la possibile sovranità sui giacimenti petroliferi nel Mare del Nord. Questi consentirebbero un utile importante per le casse della Scozia Indipendente e le consentirebbero una pianificazione pluriennale nel segno della crescita. D’altra parte, gli analisti inglesi, sono di tutt’altro avviso ed affermano che, anche considerando i 6,5 miliardi di euro provenienti dai ricavi petroliferi, la Scozia spende attualmente circa 10 miliardi di euro più di quanto incassi, ritrovandosi dopo l’indipendenza con un debito di 270 miliardi di sterline. Punti di vista opposti quindi che possono celare delle mezze verità comuni: l’Inghilterra perderebbe l’opportunità di attingere dalle riserve petrolifere scozzesi e la Scozia potrebbe trovarsi in un non proprio facile transizione in un economia indipendente. Nel 2014 se ne saprà sicuramente di più ma i presupposti politici sono comunque di una Scozia più aperta all’Europa – rispetto all’Inghilterra – ma pur sempre vicina all’Inghilterra – di fatti non vi è la volontà di abbandonare il Commonwealth.

In Jamaica il neo-primo ministro, Portia Simpson Miller, ha dichiarato: Amo la Regina, è una bella donna, ma penso sia arrivato il momento di cambiare. Una dichiarazione volta a palesare la volontà da parte dell’isola caraibica di uscire dal Commonwealth per dar vita ad un nuova Repubblica pienamente indipendente. Nel caso specifico conviene scindere le conseguenze derivanti da tale prospettiva per Jamaica e Gran Bretagna. Per l’isola caraibica cambierebbe ben poco. Uscire dal Commonwealth non risolverà certamente i gravi problemi socio-economici che la riguardano: crescita del PIL al -0,8 %; 16,5% di popolazione sotto il livello di povertà; debito pubblico al 123,2% del PIL; tasso di disoccupazione del 12,9% (fonte dati: CIA World Factbook); altissimi tassi di criminalità ed omicidi. Spostare l’attenzione pubblica sull’emancipazione costituzionale non offrirà certo nuove prospettive di sviluppo economico ed una soluzione al proliferare dei Rude Boys e del traffico di droghe – unica amara reale alternativa alla povertà. L’isola attualmente è riconosciuta a livello internazionale solo per i suoi rasta singers o come luogo dove trascorrere una piacevole vacanza, troppo poco per permettersi il lusso di canzonare la Corona Inglese. Dal punto di vista della Gran Bretagna il discorso è ben diverso. L’uscita della Jamaica dal Commonwealth costituirebbe un pericoloso precedente che ne danneggerebbe l’immagine. Infatti, lo stesso Commonwealth appare oggi come un’organizzazione decadente ed usurata dall’evoluzione delle strategie geopolitiche in atto. Per lo più ha una funzionalità estetica per la Corona Inglese, volta a dimostrarne la potenza coloniale che fu. Lo sgretolamento del sistema avrebbe un mero, ma non per questo insignificante, effetto sul prestigio Inglese – anche perché dal punto di vista economico i rapporti bilaterali e/o plurilaterali vengono continuamente confermati o cambiati in base alle strategie geoeconomiche in atto.

Le Isole Falkland (Malvinas) rappresentano un importante crocevia per le strategie geopolitiche e geoeconomiche della Gran Bretagna. Della disputa territoriale, abbiamo già trattato in un precedente articolo*, ma è necessario richiamare alcuni concetti chiave importanti per comprendere meglio la criticità dell’argomento per il Regno Unito. Dal punto di vista geopolitico, rinunciare alla sovranità sull’isola, ridimensionerebbe il peso inglese nelle relazioni internazionali dando, al contrario, maggiore forza all’emergente Regione Latinoamericana. Da notare che parliamo di due aree geografiche ben diverse dato che, in appoggio alla tesi inglese – che non intende rinunciare alla propria sovranità sulle isole ne tanto meno sul mare circostante – non si è formata nessuna coalizione di Stati “Occidentali” pronti a spendere dichiarazioni pubbliche in suo favore. Dal versante Argentino, invece, si è schierata, più o meno apertamente, l’intera Regione Latinoamericana confermandone l’unità e la forte solidarietà intraregionale. Dal punto di vista geoeconomico vanno tenuti in considerazione due aspetti cruciali:

– esistono riserve petrolifere sotto il fondale marino che, indifferentemente dalla loro consistenza, rappresentano un importante risorsa in proiezione futura;

– la collocazione geografica delle Falkland permetterebbe, in futuro, una posizione in primissima linea per lo sfruttamento delle risorse artiche una volta accessibili.

Fattori importanti quindi e che potrebbero assicurare, a chi dovesse avere la sovranità su questo territorio, un posto di tutto rilievo nello scacchiere geopolitico del futuro.

Nel 2014 sicuramente ne sapremo di più e soprattutto scopriremo se durante i prossimi Giochi del Commonwealth – tra l’altro previsti proprio nel 2014 in Scozia – ci saranno importanti defezioni dell’ultimo anno, malumori tra i partecipanti o se, per la plurisecolare Corna, tutto rimarrà così come è oggi, in nome della Regina d’Inghilterra.

* Malvinas o Falkland: una sovranità che è destinata a contrapporre il nuovo sistema emergente Indiolatino al vecchio sistema occidentale.

William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)

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