Il 5 giugno scorso il Fondo monetario internazionale ha accordato all’Egitto un prestito di 3 miliardi di dollari su 12 mesi, a un tasso dell’1,5%. Pochi giorni prima era stata resa pubblica la decisione del G8 di Deauville relativa allo stanziamento di un fondo speciale di 40 miliardi di dollari, per finanziare la stabilizzazione delle nuove democrazie in Nord Africa e nel Vicino oriente.
Il prestito è stato in seguito cancellato in risposta “alla pressione dell’opinione pubblica” e dopo la presentazione di una nuova bozza finanziaria per il 2011-2012, che prevedeva la riduzione della spesa pubblica.
Il Cairo ha comunicato che due paesi del Golfo contribuiranno a rilanciare l’economia egiziana: l’Arabia Saudita con 4 miliardi di dollari sotto forma di prestiti a lunga scadenza e il Qatar, che investirà 10 miliardi.
La pressione dell’opinione pubblica, di cui si diceva, trova nella “Campagna popolare per l’estinzione del debito egiziano” la sua più completa realizzazione. Khaled Ali, uno dei suoi promotori, ne spiega le motivazioni di fondo: la campagna non mira alla cancellazione totale del debito, ma ad una sua rinegoziazione puntuale nei termini e nelle finalità.
Il prestito concesso a giugno, infatti, strideva non poco col rovesciamento del passato regime e con le aspettative di chi aveva appena vinto la rivoluzione, che, prima ancora della caduta di Mubarak, era in cerca di “giustizia sociale e dignità”.
“Debito odioso”
Le istituzioni finanziarie internazionali, pur sapendo perfettamente che la dittatura di Mubarak non rappresentava la volontà popolare, hanno sempre continuato a finanziarla; i cittadini egiziani possono, quindi, ritenersi sollevati dal peso di un debito al quale non hanno mai acconsentito e dei cui frutti non hanno mai beneficiato; debito che costringe la nazione a indirizzare tutte le sue risorse verso il pagamento degli interessi, limitando così le sue capacità di sviluppo.
E’ questo, in sintesi, il contenuto del concetto legale coniato dal teorico Alexander Sack, Ministro delle Finanze russo nel 1927, noto come dottrina del “debito odioso”.
Questo genere di debiti doveva essere cancellato con la caduta delle dittature o dei regimi autocratici che li avevano contratti, come è successo in Iraq nel 2003 con la caduta di Saddam Hussein e in Sud Africa dopo la fine del regime di apartheid.
Nel 2009 l’Ecuador ha raggiunto un accordo che riduce il suo debito estero di più dei 2/3: per ogni dollaro dovuto, il governo ecuadoregno dovrà versare solo 35 centesimi.
Attualmente, sia in Grecia che in Irlanda esistono commissioni popolari per la revisione del debito che premono affinché si proceda all’istituzione di commissioni ufficiali. Anche la Tunisia ha istituito una commissione per verificare il debito di Ben Ali.
E’ tempo che i popoli reclamino il diritto fondamentale di partecipare alla determinazione delle priorità economiche del proprio paese, dal momento che essi sono i primi a risentire degli effetti delle politiche economiche e a pagare di tasca propria gli errori dei passati regimi.
Questa è la convinzione comune dei vari movimenti e ciò che chiedono i membri della “Campagna popolare per l’estinzione del debito egiziano” nello statuto dell’associazione.
In particolare, nel documento si richiede che ogni prestito futuro sia soggetto alla discussione e alla partecipazione popolare, in modo da garantire trasparenza e affidabilità.
Inoltre, saranno necessarie norme sulla libertà d’informazione che garantiscano la pubblicità di tutti gli accordi e di ogni altra informazione relativa ai prestiti e ai debiti contratti.
Società civile
Lo scorso giugno, 67 organizzazioni della società civile araba, in rappresentanza di 12 paesi, hanno lanciato un appello congiunto in difesa degli obiettivi perseguiti attraverso le rivoluzioni, affinché questi non vengano distorti dall’intervento di Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Banca europea per gli investimenti e Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo.
Kinda Mohamadieh, direttrice della Rete delle Ong arabe per lo sviluppo, ha spiegato al britannico Guardian: “I cambiamenti democratici ricercati dalle popolazioni locali non saranno raggiunti con l’aumento degli aiuti legati a condizionalità politiche, ulteriori liberalizzazioni di commercio e investimenti, deregolamentazioni e ricette economiche molto ortodosse che hanno così tanto contribuito alle ingiustizie contro le quali si sono ribellati i popoli di Tunisia ed Egitto. Il percorso verso lo sviluppo passa necessariamente attraverso la volontà dei popoli di ogni singolo paese, con un processo costituzionale e un dialogo nazionale”.
Ancora nel settembre del 2010, l’FMI infatti lodava la “solida gestione macroeconomica della Tunisia e le sue riforme strutturali dell’ultimo decennio”, auspicando perfino una loro continuità attraverso “il contenimento della spesa pubblica sui sussidi ai salari, ai generi alimentari ed ai carburanti”, nonostante nello stesso documento si riconoscesse l’aumento dei prezzi degli alimenti nel paese a causa dell’aumento dei prezzi alimentari a livello globale. Il continuo perseguimento nel corso degli anni di politiche assolutamente inadeguate ed il disprezzo delle vere priorità delle popolazioni di questi paesi pongono delle questioni nodali sul ruolo dell’FMI nei processi di transizione. Tali questioni dovrebbero portare ad un riesame serio, aperto ed inclusivo delle politiche prescritte dalle organizzazioni internazionali negli scorsi decenni. L’operatività internazionale di istituzioni economiche e finanziarie potrà solo trarre vantaggio da questo dibattito, a condizione che esso preveda la partecipazione paritaria dei paesi in via di sviluppo.
Dal basso ai vertici
Se è facile comprendere la diffusione popolare e il consenso riscosso da questi movimenti nei paesi summenzionati, più complesso risulta individuare gli appoggi su cui essi potranno contare.
Le prime elezioni democratiche in Tunisia hanno dato al Congresso per la Repubblica, che supporta il programma di revisione del debito, 30 seggi.
In Egitto, secondo l’organizzatrice della Conferenza Salmaa Hussein il Tagammu, i Nasseristi e Karama appoggerebbero i loro sforzi.
Difficile fare previsioni vista la posta in gioco. Per ora sembra che la presa di posizione dell’Egitto tenga.
Il ministro delle Finanze Samir Radwan ha spiegato che la prima bozza del budget nazionale è stata discussa “con attivisti, scrittori, imprenditori, sindacati e Ong. Come risultato di questo dialogo e data la preoccupazione del Consiglio Militare di non riversare sul futuro governo ulteriori debiti, il deficit è stato ridotto dall’11% del Pil all’8,6%, coperto per la maggior parte grazie a risorse locali e supporto esterno”.
Il ruolo di Stati Uniti e Unione Europea
Non solo istituzioni finanziarie, ma anche Stati quali gli Usa guardano con interesse a quanto succede in Nord Africa. Il presidente Obama ha infatti aveva già annunciato a maggio che “l’amministrazione americana è pronta a cancellare fino a 1 miliardo di dollari di debito egiziano per aiutare la crescita economica del paese”.
Piano Marshall per il Nord Africa?
Il nocciolo di quel che ha detto Obama è che gli Stati Uniti devono essere partecipi dei massicci cambiamenti avvenuti nel Vicino Oriente e in Nord Africa, modernizzando le loro economie e fornendo occupazione ai giovani cosicché la democrazia possa radicarsi, raggiungendo una stabilità regionale essenziale per l’America.
L’Egitto è il secondo destinatario di aiuti Usa nella regione, dopo Israele: il paese risulta beneficiario di 2 miliardi di aiuti netti, di cui 1,3 miliardi sarebbero indirizzati al rafforzamento delle forze armate. Vi sono 250 milioni di aiuti economici e quasi altri 2 miliardi destinati alla cooperazione economica di lungo periodo fra i due paesi.
A fronte di questo ingente impegno finanziario, gli USA avrebbero ottenuto molto nell’era Mubarak: con le garanzie sulla sicurezza dei confini con Israele, la chiusura del valico di Rafah con Gaza, la lotta al terrorismo islamico e l’effetto stabilizzatore dell’Egitto sull’intera area. Resta da vedere se il nuovo Egitto riuscirà a fornire rassicurazioni sul rispetto degli stessi impegni. Da qui deriva la fondamentale importanza strategica del paese Nord-africano per la politica estera statunitense e di conseguenza il tentativo di mantenerlo sotto la propria influenza.
L’Alto Comando Militare (SCAF) egiziano si trova quindi dinanzi ad un bivio: da un lato non intende rinunciare agli aiuti statunitensi, dall’altro non può esonerarsi dal recepire almeno alcune delle richieste che giungono dalla società civile in chiave anti-israeliana (in particolare, c’è la richiesta a Israele di compensare le vittime egiziane della recente incursione dell’IDF oltre confine).
Politiche Euromediterranee
La Commissione Europea in agosto ha approvato due pacchetti di aiuti, rispettivamente di 100 e 110 miliardi di dollari a favore di Egitto e Tunisia. Sin dalla sua origine, ma con maggiore impegno dal 1995, con il lancio del Processo di Barcellona, l’UE ha sviluppato una complessa politica volta a incentivare le riforme politiche nei paesi arabi del Mediterraneo e a porre le basi, nel quadro di una cooperazione multiforme, per un loro sviluppo economico e sociale.
La scelta che è stata compiuta nei fatti dall’Unione e dagli Stati europei è stata quella di privilegiare la stabilità degli interlocutori politici nella sponda Sud del Mediterraneo, a discapito della richiesta della promozione di riforme politiche. A spingere in tale direzione vi sono state indubbie ragioni oggettive, come la necessità, per gli Stati europei, di garantire la sicurezza dei propri approvvigionamenti energetici. I problemi emersi o aggravatisi nel frattempo – soprattutto il terrorismo e l’incremento dell’immigrazione – hanno poi provocato una forte rinazionalizzazione delle prospettive di sicurezza degli stati membri dell’UE.
I governi europei hanno finito quindi per accantonare le riforme, passando a politiche di sostegno ai regimi autoritari mediterranei in cambio della cooperazione economica, di una loro collaborazione al contenimento dell’immigrazione e alla lotta al terrorismo.
Di fronte agli sviluppi recenti in Nord Africa e nel vicino Oriente la scelta di non attuare l’originaria politica mediterranea di promozione delle riforme a favore dell’appoggio alla stabilità dei regimi appare ora chiaramente fallimentare o quanto meno poco lungimirante.
Nel documento presentato l’11 marzo 2011 si raccomanda al Consiglio di approvare lo stanziamento di un miliardo di euro proposto recentemente dal Parlamento Europeo, onde consentire alla BEI di effettuare prestiti per sei
miliardi nei prossimi anni.
La Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), finora attiva solo nei confronti dei paesi europei dell’Est, si appresta a modificare il suo statuto per concedere un miliardo di prestiti al settore privato del Marocco e dell’Egitto.
Difficile però credere che gli obiettivi originari, primo fra tutti la garanzia di approvvigionamenti energetici, verranno accantonati per far posto alle esigenze politico-economiche dei popoli del Mediterraneo.
Conclusioni
Rifiutare il prestito del Fondo monetario internazionale ha significato sfuggire, almeno per il momento, alla solita logica che vuole che siano governi stranieri a decidere dell’economia di un paese, prima che si possano svolgere regolari elezioni. Quei debiti sarebbero ricaduti sulle spalle degli egiziani che avrebbero dovuto ripagarli per decenni, nonostante non vi sia stata alcuna approvazione da parte di un governo democraticamente eletto.
Senza contare che le condizioni alle quali il prestito sarebbe stato concesso avrebbero compreso il solito pacchetto di privatizzazioni e deregolamentazioni neoliberiste, per aprire i nuovi arrivati all’economia di mercato.
Le conseguenze inevitabili di tali politiche sarebbero state la drastica riduzione del settore manifatturiero e quindi una massiccia perdita di posti di lavoro.
Non a caso la dichiarazione del G8 di Deauville si apre proprio sostenendo che la Primavera araba “può aprire la porta al tipo di trasformazione avvenuta nell’Europa dell’Est dopo la caduta del muro di Berlino”. Come evidenzia il Guardian, le economie dell’Europa centro – orientale si sono ridotte in media del 5 % ogni anno tra il 1991 e il 1995.
Dunque, quale futuro si prospetta per questi movimenti?
Indicativo è il fatto che alla conferenza non abbia partecipato alcun membro del Governo. In compenso alla riunione erano presenti molti ospiti latino-americani che hanno portato le loro esperienze di successo nella rinegoziazione del debito. Si spera che, una volta ultimato il passaggio di poteri dalle istituzioni militari a quelle civili, anche l’Egitto possa concretizzare questi progetti.
Solo così sarà possibile liberare le risorse da investire nella sanità pubblica, nell’istruzione e in programmi di welfare e quindi realizzare gli obiettivi di Piazza Tahrir.
* Nerina Schiavo è laureanda in Relazioni Internazionali presso l’Università La Sapienza di Roma